CASSAZIONE CIVILE, sez. I, 05 marzo 2024, n. 5866

CASSAZIONE CIVILE, sez. I, 05 marzo 2024, n. 5866

In materia di marchi, la registrazione in mala fede opera quale norma di chiusura poiché l’art. 19, comma 2, c.p.i. è chiamato a definire i conflitti che il legislatore non ha ritenuto di risolvere espressamente, giacché la legge non regolamenta più volte la medesima situazione. In altri termini, è da credere che ove il conflitto tra i segni sia definito prevedendo la nullità della registrazione successiva, il titolare del diritto anteriore e prevalente possa invocare quest’ultimo rimedio, non anche l’altrui divieto di registrare il marchio in malafede.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Presidente

Dott. MARULLI Marco – Consigliere

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere-Rel.

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 20344/2022 R.G. proposto da:

PALAZZO A.A. Spa, elettivamente domiciliata in ROMA VIA PIEMONTE 26, presso lo studio dell’avvocato CELLUPRICA FRANCESCO (omissis) che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIARDINO GUIDO (omissis)

-ricorrente-

contro

HOTEL BRITANNIQUE Srl, B.B., elettivamente domiciliati in ROMA VIA TOMACELLI N. 146, presso lo studio dell’avvocato SCAPICCHIO CLAUDIA (omissis) che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati CAMUSSO ALBERTO (omissis), BAGHETTI MASSIMO(omissis),

-controricorrenti-

avverso

SENTENZA di CORTE D’APPELLO ROMA depositata il 27/07/2022.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23/02/2024 dal Consigliere GIULIA IOFRIDA.

La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 5199/2022 pubblicata il 27/7/2022 ha riformato la decisione di primo grado resa all’esito del giudizio instaurato, dinanzi al Tribunale di Roma, dalla Hotel Britannique (di seguito anche HB) Srl, società che dal 1979 alla metà del 2016 aveva posseduto e gestito l’Hotel Britannique, complesso alberghiero sito in N., (omissis), e da B.B., amministratore, anche in proprio, nei confronti della Palazzo A.A. (di seguito anche PC) Spa , che aveva, nel 2016, sottoscritto con l’attrice, prima, un patto di opzione di acquisto, e, poi, un contratto preliminare di compravendita e, nel gennaio 2017, un contratto definitivo di compravendita relativo all’immobile ove era ubicato l’Hotel Britannique.

Le parti attrici avevano agito al fine di sentire dichiarare la nullità, ex art.12 c.p.i., del marchio italiano “Britannique” depositato, nel dicembre 2016 (e concesso nel febbraio 2017), da Palazzo A.A., per mancanza di novità rispetto al corrispondente marchio di fatto preusato di titolarità di HB, nonché per deposito del marchio in malafede ex art. 19, comma 2 del CPI, dato che la titolarità del marchio di fatto in capo ad HB costituiva una legittima aspettativa alla registrazione del segno, con conseguente inibizione all’uso del segno e pubblicazione della sentenza.

Nel predetto giudizio la Palazzo A.A., costituendosi, aveva eccepito l’avvenuta cessione del marchio di fatto da Hotel Britannique a Palazzo A.A. medesima, la cessazione dell’uso del marchio di fatto, da parte di Hotel Britannique, almeno dal 2016, l’uso comunque locale del precedente marchio di fatto, la cessazione dell’attività alberghiera in generale di HB e la conseguente impossibilità di confusione e/o concorrenza sleale, il deposito in buona fede del marchio; stante quanto appena esposto e in assenza di usi e/o registrazioni impeditivi al momento del deposito del marchio, la Palazzo A.A. aveva proposto domande riconvenzionali,di accertamento della validità del marchio “Britannique” da lei registrato e della nullità del marchio “Hotel Britannique” depositato da HB, nel maggio 2018, per mancanza di novità e per deposito in malafede.

Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 18107/2021, aveva rigettato le domande degli attori e aveva accolto quelle riconvenzionali della convenuta Palazzo A.A. (nullità del marchio depositato dagli attori HB e B.B. nel 2018 e inibitoria all’uso del segno “Britannique”), dichiarando la carenza di legittimazione dell’B.B. a far valere la nullità del marchio registrato ai sensi dell’art.12 c.p.i., mentre sussisteva la sua legittimazione con riguardo alla nullità del marchio “Britannique” ex art.19, comma 2, c.p.i.

In particolare, con riferimento al marchio di fatto invocato da HB, il Tribunale affermava che: a) non ricorreva il presupposto della tutela prevista dall’art. 12, co.1, lett. b) c.p.i. del rischio di confusione o di associazione con riferimento al marchio registrato dalla convenuta a causa della mancanza di attualità dell’esercizio dell’attività alberghiera da parte degli attori; b) il preuso del marchio di fatto ad opera degli attori aveva comportato notorietà meramente locale.

Con riferimento alle ulteriori questioni e alle domande riconvenzionali di Palazzo A.A., il Tribunale sosteneva che: a) non vi era malafede nel deposito del marchio “Britannique” da parte di Palazzo A.A., in quanto effettuato dopo la cessazione dell’attività alberghiera da parte di HB e “dopo la stipulazione tra le parti del contratto preliminare di vendita dell’immobile sopra descritto, conformemente agli accordi inter partes” e non essendo tale deposito ” finalizzato a prevenire analoga richiesta da parte degli attori, né a creare un intralcio alla registrazione del segno distintivo da parte dei questi ultimi, bensì per proteggere il marchio Britannique, con cui la convenuta intendeva contraddistinguere la sua attività alberghiera da intraprendere nell’immobile acquistato dall’attrice, sul presupposto che era cessata analoga attività da parte di quest’ultima” ; b) il marchio Britannique di Palazzo A.A. era valido in quanto non depositato in malafede e non anticipato dall’asserito marchio di fatto di HB; c) il marchio depositato da HB era nullo in quanto depositato dopo il marchio registrato di Palazzo A.A.; d) dovevano essere disposti i conseguenti ordini di inibitoria e pubblicazione.

I giudici di appello hanno, invece, accolto il gravame della HB e dell’B.B., dichiarando la nullità per difetto di novità e per registrazione in malafede, ex artt.12, lett.a) e b), e 19 c.p.i., dei marchi “Britannique” n. (omissis) del 29.12.201615.02.2018 e n. (omissis) del 17.9.2019- 06.07.2020, registrati dalla Palazzo A.A. Spa, con inibitoria alla società Palazzo A.A. Spa all’utilizzo del marchio “Britannique” e di altri segni simili o ricomprendenti tale denominazione, trasmissione della sentenza all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, pubblicazione della sentenza, e rigettando la domanda riconvenzionale proposta da Palazzo A.A. Spa

In particolare, la Corte d’appello ha, anzitutto, affermato che, alla data di deposito della domanda di registrazione da parte della Palazzo A.A. del marchio “Hotel Britannique”, il marchio di fatto “Hotel Britannique”, rimasto nella titolarità della omonima società (con la stessa denominazione sociale), godeva di notorietà generale, non meramente locale, e non poteva dirsi dismesso per il solo fatto che la società non svolgeva alcuna attività.

Con riguardo all’art.12 c.p.i. e alla tutela del preuso del marchio di fatto nei confronti di un successivo marchio registrato uguale o simile, la Corte territoriale ha affermato che “il marchio di fatto Hotel Britannique, indubbiamente dotato di capacità distintiva, ed utilizzato da lungo tempo da parte degli appellanti nell’esercizio dell’attività alberghiera nell’omonimo albergo in N., appartiene alla categoria dei segni che hanno avuto notorietà generale nel passato, e che attualmente, pur non avendo mantenuto lo stesso prestigio, godono di quella particolare fama che deriva dall’appartenenza a tutto ciò che affonda le radici nel passato, un tempo prestigioso, e che, per questo, attraverso il semplice uso del marchio stesso, mantengono nel tempo, grazie alla storicità della fama acquisita, una notorietà generale e non meramente locale, anche a livello internazionale”, dovendosi avere riguardo quanto alla possibilità di confusione alla normale potenzialità di espansione dell’attività del titolare del marchio di fatto, in base ad un giudizio ex ante, rispetto al momento del deposito della domanda di registrazione del marchio simile a quello preusato.

Valutata la storia dell’Hotel Britannique, il suo passato prestigioso e la documentazione prodotta, si doveva anzi rilevare che la struttura alberghiera avesse goduto nel tempo di rinomanza e, in epoca più recente, l’albergo, fino alla stipula del preliminare di compravendita, nel 2016, aveva continuato ad esercitare la propria attività, quale albergo a quattro stelle, ospitando clienti provenienti da luoghi differenti a quello puramente locale, cosicché il marchio di fatto Hotel Britannique aveva goduto di una notorietà generale. Né poteva ritenersi che il suddetto marchio di fatto fosse venuto meno per non uso alla data del deposito della domanda di registrazione contestata, anche considerato che tale domanda di registrazione da parte della Palazzo A.A. (nel dicembre 2016) era avvenuta a pochi mesi dall’interruzione dell’attività alberghiera in forza dell’art.5 del contratto preliminare di compravendita del luglio 2016. In particolare, l’art.5 del preliminare di vendita, secondo il quale la società HB garantiva la cessazione dell’attività alberghiera prima della stipula dell’atto definitivo e la restituzione delle licenze e autorizzazioni entro il 15/9/2016, “senza che le stesse e l’azienda vengano cedute a terzi”, contemplava il divieto di cessione a terzi dell’azienda in funzione esclusivamente, della richiesta, da parte della promissaria acquirente, della licenza di esercizio dell’attività alberghiera sullo stesso immobile oggetto del trasferimento, essendo quindi “temporalmente limitato fino alla data del rilascio della licenza alberghiera da parte della Palazzo A.A. Spa da esercitare presso l’immobile di Corso (omissis), oggetto della compravendita, licenza che risulta rilasciata”.

Invero, la sola cessazione dell’attività alberghiera presso l’immobile sito in N., alla data di deposito della domanda di registrazione da parte della Palazzo A.A., avendo la società HB, nel settembre 2016, trasferito la licenza relativa, non escludeva di per sé il rischio di confusione “con il marchio di fatto Hotel Britannique e con la denominazione sociale dell’omonima Srl”, in relazione all’art.12 lett.a e b, c.p.i.

Quindi la Corte d’appello, accogliendo il gravame sul punto della mancata cessione del marchio di fatto e respingendo la tesi dell’appellata secondo cui, se esisteva un marchio di fatto “Britannique”, questo era connesso all’immobile quale nome storico dell’edificio e doveva intendersi ceduto da HB a Palazzo A.A. con la cessione dell’immobile, ha affermato che l’azienda e il marchio di fatto non erano stati oggetto di cessione alla Palazzo A.A. Spa ed erano rimasti nella titolarità della Hotel Britannique; sotto il nome “accessori, accessioni, dipendenza e servitù” venduti unitamente all’immobile si dovevano intendere unicamente le porzioni immobiliari oggetto della vendita e non poteva esservi ricompreso anche il marchio di fatto, ossia il nome “Hotel Britannique”. poiché “solo in caso di cessione d’azienda, anche il marchio, al pari di ogni altro bene, verrebbe trasferito in quanto facente parte dell’oggetto del contratto d’acquisto, che vede nell’azienda una complessa unità organizzata, comprensiva dei rapporti in essere nonché dei beni materiali e immateriali”.

La HB, una volta restituita la licenza relativa all’attività alberghiera nel predetto immobile, “ben poteva monetizzare ulteriormente gli altri elementi attivi del patrimonio sociale, dopo l’immobile , cedendo a terzi il marchio di fatto Hotel Britannique , con o senza l’azienda, in favore di soggetti muniti di licenza presso altri immobili” ovvero, previa modifica dell’oggetto sociale, promuovendo l’attività ricettiva presso altri immobili o registrando, cosa poi avvenuta, il marchio in questione pur in assenza di contemporaneo svolgimento dell’attività alberghiera o comunque ricettiva.

La Corte d’appello ha quindi accolto anche il motivo sulla registrazione in mala fede – ex art. 19, comma 2 c.p.i. – del marchio “Britannique” da parte di Palazzo A.A. Spa, ravvisabile anche in ipotesi di avvenuta dismissione del marchio precedente, rilevando che, poiché al momento della domanda di registrazione del marchio da parte dell’appellata “il nome “Hotel Britannique” non corrisponde al nome di un edificio sito in N., quale ad es. Palazzo A.A.”, la vendita dell’immobile, sito in Corso (omissis), e la cessazione dell’attività alberghiera in quell’immobile non comportava il venir meno della titolarità del marchio di fatto “Hotel Britannique” in capo all’omonima società, che da decenni lo utilizzava, e il marchio di fatto “Hotel Britannique” “godeva di notorietà generale, nonostante la cessazione dell’attività alberghiera da parte della società appellante, detto nome persisteva nel ricordo del pubblico nazionale e internazionale, risultando sicuramente integrata la fattispecie della registrazione in mala fede individuata dalla ermeneutica maggioritaria”. Si è poi precisato che l’accoglimento del motivo di nullità del marchio per registrazione in malafede, ex art.19 comma 2 c.p.i. assorbiva il motivo di appello sulla legittimazione dell’B.B. dovendosi confermare la statuizione di primo grado al riguardo.

Avverso la suddetta pronuncia, la Palazzo A.A. Spa propone ricorso per cassazione, notificato il 5/9/2022, affidato a nove motivi, nei confronti di Hotel Britannique Srl e B.B. in proprio (che resistono con controricorso). Entrambe le parti hanno depositato memoria.

1. La ricorrente lamenta: a) con il primo motivo, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 23 del Codice della Proprietà Industriale (Trasferimento del marchio) e dell’art. 2573 del Codice Civile (Trasferimento del marchio), ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per avere la Corte d’appello errato nel ritenere che solo il trasferimento d’azienda comporti anche la possibilità di cessione del marchio; b) con il secondo motivo, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., per avere la Corte omesso di esaminare il contratto di cessione immobiliare, in particolare con riferimento alla clausola contenuta nell’art. 4 a pagina 5 e allegato quale doc. 10 secondo la numerazione del fascicolo di I e II grado (così trascritta: “La vendita è convenuta a corpo e non a misura unitamente ad ogni accessorio, accessione, dipendenza, servitù attiva o passiva il tutto come posseduto dalla parte venditrice nonché unitamente a ogni e qualsiasi diritto di titolarità della società venditrice comunque inerente il complesso immobiliare”); c) con il terzo motivo, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1362 e 1366 del Codice Civile (“Intenzione dei contraenti e Interpretazione di buona fede”), ex art. 360, comma 1 n. 3, c.p.c., in quanto la Corte d’appello non avrebbe considerato né indagato in alcun modo le intenzioni delle parti né applicato l’interpretazione di buona fede al contratto, limitandosi alla lettura asettica e fuori contesto del dato letterale ; d) con il quarto motivo, l’ omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., per avere la Corte territoriale ignorato documentazione attestante fatti storici decisivi per il giudizio e precisamente le dichiarazioni testimoniali allegate quali docc. 6 e 7 del fascicolo di I e II grado; e) con il quinto motivo, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 19, comma 2 del Codice di Proprietà Industriale , ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., deducendo che, essendo la nullità per malafede una norma residuale e di chiusura e, come chiaramente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, non invocabile quando si faccia valere un diritto anteriore, nel caso di specie, avendo Hotel Britannique invocato la nullità del marchio posteriore di Palazzo A.A. per mancanza di novità rispetto al proprio asserito marchio di fatto, essa non avrebbe potuto invocare anche la nullità per malafede, mentre la Corte d’appello ha dichiarato la nullità anche per malafede dopo aver sancito la nullità per mancanza di novità; f) con sesto motivo, la violazione o falsa applicazione dell’art. 12, comma 1, lett. a del Codice della Proprietà Industriale , ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. , avendo la Corte d’appello violato il dettato dell’art. 12 c.p.i. per avere confuso la notorietà di un segno con l’uso dello stesso e affermato che la notorietà discende da un semplice uso (che non importa notorietà) di un segno prima molto usato (e quindi, sempre erroneamente, ritenuto molto noto), con conseguente doppio fraintendimento del concetto di preuso che porta ad una fattispecie non prevista dall’art. 12 c.p.i.; g) con il settimo motivo, la violazione o falsa applicazione dell’art. 12, comma 1, lett. a del Codice della Proprietà Industriale, ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. , per avere la Corte errato “nel ritenere la tutela di un marchio di fatto non usato, di una impresa inattiva e senza prospettive realistiche né una volontà di ripresa dell’attività”; h) con l’ottavo motivo, la violazione o falsa applicazione dell’art. 12, comma 1, lett. a, del Codice della Proprietà Industriale , ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. , per avere la Corte d’appello travisato il concetto di rischio di confusione come previsto dall’art. 12, primo comma, lett. A, c.p.i.; i) con il nono motivo, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2729, comma 1 ,c.c., ex art. 360, comma 1, n. 3, avendo la Corte territoriale usato una presunzione per stabilire la notorietà generale del marchio di fatto “Britannique” senza i requisiti di legge, in particolare senza che la presunzione avesse carattere di gravità secondo l’insegnamento della Cassazione.

2. La controricorrente ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità del ricorso per mancata impugnazione di tutte le rationes decidendi.

Si deduce che: a) la sentenza di appello ha dichiarato l’invalidità dei marchi “Britannique” registrati da Palazzo A.A. sulla base di due distinte ed autonome cause di nullità degli stessi per carenza di novità – e ciò espressamente ai sensi delle lettere a) e b) dell’art. 12, co. 1, c.p.i. – oltre che per registrazione in mala fede ex art. 19 c.p.i.; b) l’art. 12, co. 1, lettere a) e b), c.p.i., disciplina due distinte ed autonome cause di nullità del marchio per carenza di novità, la lettera a) per conflitto rispetto ad altri marchi, mentre la lettera b) riguarda l’ipotesi di conflitto con altri segni distintivi anteriori, quali ad esempio la ditta, la denominazione o ragione sociale, i nomi a dominio, etc.; c) nonostante, come visto, la sussistenza di due distinte ed autonome rationes decidendi di nullità dei Marchi “Britannique” di Palazzo A.A., accertate e dichiarate espressamente nella sentenza d’appello, la ricorrente Palazzo A.A. ha impugnato soltanto il capo relativo alla lettera a) dell’art. 12, co. 1, c.p.i.; d) l’unica frase del ricorso di Palazzo A.A. in cui si rinviene un qualche richiamo all’art. 12, co. 1, lett. b), c.p.i. è la seguente: “L’articolo 12.1 lett. a-b c.p.i. accorda al segno di fatto una tutela simile al marchio registrato, con il relativo diritto di esclusiva del segno, soltanto quando l’uso del marchio di fatto sia effettivo ed attuale ed abbia importato notorietà generale” (cfr. par. 122 del ricorso di Palazzo A.A., all’interno del nono motivo), inidonea a fondare un’impugnazione dell’autonomo capo della sentenza impugnata che ha dichiarato la nullità dei Marchi “Britannique” sulla base di tale art. 12, co. 1, lett. b), c.p.i., anche perché anche in tale paragrafo si fa comunque esclusivo riferimento al solo “uso del marchio di fatto” dotato di notorietà generale e non certo ad altri segni distintivi. L’eccezione non è fondata.

In effetti, anche se nessuna censura viene specificamente sollevata (salvo per il nono motivo) in relazione alla statuizione di nullità dei marchi registrati dalla Palazzo A.A. nel 2016 per carenza di novità per conflitto con i segni distintivi anteriori di titolarità della Palazzo A.A. (ditta, denominazione o ragione sociale…), ai sensi dell’art.12 lett.b), c.p.i., tuttavia, il tenore complessivo delle doglianze, in alcune censure in particolare, involge la violazione dell’art.12 c.p.i., senza riferimenti alle lett.a) o b) e, nell’impostazione del ricorso, si sostiene che il contratto inter partes aveva comportato anche il trasferimento di diritti di privativa industriale di titolarità della HB (il marchio di fatto anzitutto) alla PC.

3. Passando all’esame quindi dei motivi di ricorso, il primo è inammissibile, in quanto non coglie la complessiva ratio decidendi.

Lamenta la ricorrente, contestando un periodo della motivazione della sentenza impugnata (“solo in caso di cessione d’azienda, anche il marchio, al pari di ogni altro bene, verrebbe trasferito in quanto facente parte dell’oggetto del contratto d’acquisto, che vede nell’azienda una complessa unità organizzata, comprensiva dei rapporti in essere nonché dei beni materiali e immateriali”), che nessuna norma impedisce che il trasferimento di un marchio, registrato o meno, sia trasferito indipendentemente dall’azienda.

Tuttavia, valutata la motivazione nel suo complesso, la Corte d’appello non ha ritenuto che un marchio possa essere trasferito esclusivamente insieme all’azienda ma, al contrario, ha soltanto accertato che: a) il marchio “Hotel Britannique” non era stato oggetto di alcuna pattuizione che ne determinasse la cessione in favore di Palazzo A.A., escludendo così la concreta rilevanza degli artt. 23 c.p.i. e 2573, co. 1, c.c.; b) i rapporti contrattuali intercorsi tra le parti non avevano mai dato luogo ad una cessione di azienda, bensì ad una semplice compravendita immobiliare; c) pertanto, il trasferimento del marchio “Hotel Britannique” in favore di Palazzo A.A. non si poteva presumere neppure ai sensi dell’art. 2573, co. 2, c.c.

4. Il secondo motivo è inammissibile.

La ricorrente lamenta, ex art.360, n. 5, c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ossia l’espressione “nonché unitamente a ogni e qualsiasi diritto di titolarità della società venditrice comunque inerente il complesso immobiliare”, contenuta nella seconda parte dell’art. 4 dell’atto di compravendita immobiliare del 30 gennaio 2017. Secondo la Palazzo A.A., il contenuto di tale clausola sarebbe decisivo in quanto consentirebbe di dimostrare che, unitamente al complesso immobiliare, la cessione avrebbe coinvolto anche il nome dell’edificio, ossia “Hotel Britannique”.

La doglianza non risulta decisiva, avendo la Corte d’appello accertato che nessuna pattuizione aveva riguardato il Marchio “Hotel Britannique” e che la denominazione “Hotel Britannique” non era il nome dell’immobile oggetto di compravendita, cosicché l’inclusione del Marchio “Hotel Britannique” all’interno dei “diritti inerenti al complesso immobiliare” è del tutto incompatibile con l’impostazione della sentenza di appello che ha chiaramente rigettato le argomentazioni di Palazzo A.A. ed escluso che il marchio di parte resistente potesse costituire il nome dell’edificio oggetto della compravendita.

5. La terza censura è inammissibile per difetto di autosufficienza. Invero, la doglianza, fondata sulla mancata applicazione di un canone dell’ermeneutica contrattuale, “non si può limitare a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 ss. c.c., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assume violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata” (cfr. Cass. n. 25828/2021Cass. n. 2516/2024). Inoltre, il motivo di ricorso è inammissibile in quanto “quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra” (Cass. Civ., Sez. I, ord. n. 25828/2021).

La censura risulta comunque anche infondata. La interpretazione proposta dell’espressione contenuta nella pattuizione contrattuale “unitamente a ogni e qualsiasi diritto di titolarità della società venditrice comunque inerente il complesso immobiliare” come comprensiva di diritti di marchio si pone contrasto con l’art. 7 c.p.i., secondo cui un marchio è il segno adottato da un’impresa per distinguere i propri prodotti e servizi da quelli adottati dalle altre e non un diritto correlato ad un edificio oggetto di una compravendita immobiliare.

6. Il quarto motivo, che denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., per avere la Corte territoriale ignorato documentazione attestante fatti storici decisivi per il giudizio correlati all’asserito rilascio, da parte di Hotel Britannique, di un consenso a un uso del Marchio “Hotel Britannique”. è inammissibile, risolvendosi in una richiesta di rivalutazione del materiale probatorio.

Non è più possibile in questa sede di legittimità sindacare la valutazione del materiale probatorio compiuta nella sentenza d’appello; inoltre, anche a volersi soffermare sulle circostanze fattuali dedotte da controparte, quali riportate nelle dichiarazioni testimoniali, si tratta di mere allegazioni oggetto di tempestiva contestazione da parte di Hotel Britannique nel corso dei precedenti gradi di giudizio e che sono state oggetto di un’implicita valutazione negativa da parte della Corte d’appello che ha escluso qualsivoglia cessione del marchio “Hotel Britannique” in favore di Palazzo A.A. .

6.Il quinto motivo è infondato.

Si lamenta che la nullità per malafede disciplinata dall’art.19 c.p.i. costituisce una norma residuale e di chiusura e non invocabile quando si faccia valere un diritto anteriore; poiché nel caso di specie Hotel Britannique aveva invocato la nullità del marchio posteriore di Palazzo A.A. per mancanza di novità rispetto al proprio asserito marchio di fatto, essa non avrebbe potuto dedurre anche la nullità per malafede, mentre la Corte d’appello ha dichiarato la nullità anche per malafede dopo aver sancito la nullità per mancanza di novità.

Viene richiamato il precedente citato anche nella sentenza impugnata (Cass. 10390/2018) per rammentare che, come ivi asserito “La registrazione in mala fede opera, infatti, quale norma di chiusura: come è stato osservato in dottrina, l’art. 19, comma 2, è chiamato a definire i conflitti che il legislatore non ha ritenuto di risolvere espressamente, giacché la legge non regolamenta più volte la medesima situazione. In tal senso, la disciplina in esame non potrebbe essere invocata da chi, essendo titolare di un diritto anteriore (perché, ad esempio, ha registrato per primo o può vantare un preuso non locale del segno), riceva già tutela in ragione di tale sua posizione giuridica. In altri termini, è da credere che ove il conflitto tra i segni sia definito prevedendo la nullità della registrazione successiva, il titolare del diritto anteriore e prevalente possa invocare quest’ultimo, non anche l’altrui divieto di registrare il marchio in malafede”.

Ma, per l’appunto, nella specie si è ritenuto, in concreto, che la registrazione in malafede vi fosse stata, in quanto essa concerne, rispetto alla nullità per difetto di novità, una condotta autonoma, basata su diversi presupposti fattuali: a) la registrazione in malafede presuppone ” la presenza di una disposizione d’animo o di un’intenzione disonesta, essa deve inoltre essere intesa nel contesto del diritto dei marchi, che è quello del commercio” (Tribunale I grado UE n. 250/2022), potendo essa dedursi ” dalle circostanze oggettive e dal suo operato concreto, dal ruolo o dalla posizione rivestita, dalla conoscenza che aveva dell’uso del segno anteriore, dalle relazioni di natura contrattuale, precontrattuale o post contrattuale che intratteneva con il richiedente la dichiarazione di nullità, dall’esistenza di doveri o obblighi reciproci e, più in generale, da tutte le situazioni oggettive di conflitto d’interessi in cui il richiedente il marchio si è trovato ad operare” (Tribunale I Grado UE n. 350/2022); b) la declaratoria di nullità ex art. 12 c.p.i. ha come presupposto la valutazione dei requisiti di registrabilità del marchio posteriore alla luce dell’esistenza degli anteriori diritti su marchi o altri segni distintivi.

Nella specie, la sentenza impugnata ha accertato il tentativo di Palazzo A.A. di sfruttare in maniera parassitaria la notorietà del marchio “Hotel Britannique” di HB e ha posto l’accento sul fatto che la condotta di Palazzo A.A. fosse inequivocabilmente tesa a ostacolare l’attività commerciale di Hotel Britannique.

Peraltro, la doglianza risulta comunque anche inammissibile per carenza di interesse, considerato che la nullità del marchio è stata comunque accertata e dichiarata per difetto di novità.

7. Il sesto motivo, sull’asserito fraintendimento del concetto di preuso del marchio di fatto, ai fini dell’art.12 c.p.i.,è inammissibile.

La Corte d’appello ha preso in considerazione un vasto e complesso insieme di prove documentali che, sotto il profilo temporale, avevano tratteggiato la storia dell’Hotel Britannique, dalla sua fondazione che risale alla fine dell’800 sino al 2016, anno in cui la HB ha temporaneamente sospeso l’attività che fino ad allora era stata condotta all’interno dell’immobile oggetto della compravendita in favore di Palazzo A.A., giungendo ad affermare che il Marchio “Hotel Britannique”, al momento del deposito della domanda di registrazione dei Marchi “Britannique” da parte di Palazzo A.A., godeva di una chiara notorietà generale, forse non equivalente a quella raggiunta in passato ma, in ogni caso, mai scaduta in quella notorietà puramente locale inidonea ad invalidare una registrazione di marchio successiva.

La Corte di Appello ha escluso nella maniera più assoluta “che il marchio di fatto Hotel Britannique sia venuto meno per non uso”, poiché “al momento della domanda di registrazione da parte della società Palazzo A.A. Spa, il 29.12.2016 erano passati pochi mesi dal mancato uso del marchio di fatto ad opera di Hotel Britannique Srl”

Non si ravvisa alcuna violazione e/o falsa applicazione della previsione in esame, né confusione tra i concetti di “uso” e di “notorietà”.

8. Anche il settimo motivo, con il quale si contesta che la Corte d’appello abbia errato “nel ritenere la tutela di un marchio di fatto non usato, di una impresa inattiva e senza prospettive realistiche né una volontà di ripresa dell’attività”, è inammissibile.

La Corte territoriale ha ritenuto sussistente il rischio di confusione non solo in considerazione della possibilità – poi effettivamente concretizzatasi – di ripresa di un uso, per così dire, diretto del Marchio “Hotel Britannique” da parte di HB, ma anche alla luce dell’opportunità per la stessa di “monetizzare” il valore del proprio segno distintivo cedendolo a soggetti terzi.

Il motivo si traduce nella richiesta di una nuova ed inammissibile valutazione dei fatti di causa.

9. L’ottavo motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza, in mancanza di identificazione degli atti e dei documenti su cui fonda e comunque si risolve in un’inammissibile pretesa di revisione di valutazioni fattuali/probatorie, che in quanto tali sono riservate al giudice del merito e, conseguentemente, sottratte alla cognizione e al sindacato di questa Corte.

10. Il nono motivo, in relazione alla violazione dell’art.2729 c.c. ai fini del giudizio espresso sulla rinomanza dei segni anteriori di HB protrattasi sino al momento del deposito delle domande di registrazione dei marchi “Britannique” da parte di Palazzo A.A., è inammissibile.

La Corte di appello non ha presunto, sulla base di una passata rinomanza, che il marchio “Hotel Britannique” godesse, ancora nel 2016, di una notorietà generale, ma al contrario è pervenuta a tale conclusione in via per così dire “diretta”, esaminando le inequivocabili risultanze del compendio probatorio; in ogni caso le presunzioni su cui la decisione è stata basata sono chiaramente dotate del requisito della gravità di cui all’art. 2729 c.c.

Orbene, in tema di prova presuntiva e di applicazione dell’art.2729 c.c., secondo orientamento di questo giudice di legittimità (Cass. 2944/1978), il giudice di merito, nella valutazione degli elementi indiziari e presuntivi posti a base del suo convincimento, esercita un potere discrezionale consistente nella scelta degli elementi ritenuti più attendibili e nella valutazione della loro gravita e concludenza, cosicché nella formazione di tale suo convincimento egli non incontra altro limite che l’esigenza di applicare i principi operativi nella materia delle presunzioni, deducendo univocamente il fatto ignoto dai fatti noti attraverso un procedimento logico fondato sul criterio dell’ id quod plerumque accidit, e tale apprezzamento dei fatti, se correttamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità.

Sempre, in tema di prova per presunzioni, si è affermato che è censurabile in sede di legittimità la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento (conf. Cass. 9059/2018Cass. 10973/2017).

Resta dunque fermo il principio per cui è incensurabile in sede di legittimità l’apprezzamento del giudice del merito circa la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, sempre che la motivazione adottata appaia congrua dal punto di vista logico, immune da errori di diritto e rispettosa dei principi che regolano la prova per presunzioni (Cass. 1216/2006Cass. 15219/2007Cass. 656/2014Cass. 1792/2017, che ha affermato come il risultato dell’accertamento in merito alla valida prova presuntiva, se adeguatamente e coerentemente motivato, “si sottrae al sindacato di legittimità, che è invece ammissibile quando nella motivazione siano stati pretermessi, senza darne ragione, uno o più fattori aventi, per condivisibili massime di esperienza, una oggettiva portata indiziante”; Cass. 19987/2018Cass. 1234/2019, ove si è ribadito che il sindacato del giudice di legittimità circoscritto alla verifica della tenuta della relativa motivazione, nei limiti segnati dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.).

11. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso.

Le spese, liquidate come in dispositivo, tenuto conto della nota spese, per la fase di sospensiva dell’efficacia esecutiva della sentenza impugnata e per il presente giudizio di legittimità, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso; condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 6.500,00, a titolo di compensi ed esborsi, oltre al rimborso forfettario delle spese generali, nella misura del 15%, ed agli accessori di legge, per la fase di sospensiva, e, per il presente giudizio di legittimità, Euro 10.773,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, nonché al rimborso forfettario delle spese generali, nella misura del 15%, ed agli accessori di legge.

Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.

Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 23 febbraio 2024 della prima sezione civile.

Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2024.