CASSAZIONE CIVILE, sez. I, 20 marzo 2023, n. 7937

La situazione di conflitto tra i due segni (DOP e marchio), contemplata dall’art. 14 del regolamento n. 510/2006/CE, presuppone che gli stessi abbiano ad oggetto lo stesso tipo di prodotto, presupposto in difetto del quale il titolare della DOP non può invocare la tutela apprestata dalla norma comunitaria. Per accertare se ci si trova in presenza dello stesso prodotto o di prodotti affini o similari, il riferimento alle classi merceologiche di cui alla tabella di Nizza è senz’altro pertinente allorquando i segni in conflitto siano entrambi dei marchi, non lo è, invece, affatto quando la comparazione debba effettuarsi tra una denominazione di origine protetta (DOP) ed un marchio, poiché in tale ultima evenienza per individuare l’ambito di tutela della DOP  sarà essenziale esaminare la descrizione del prodotto e il metodo di lavorazione dello stesso sia nel disciplinare che nella domanda di registrazione, i quali rappresentano, all’evidenza, un indice di natura oggettiva per effettuare l’indagine relativa all’affinità, similiarità dei prodotti.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco – Presidente –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 8622/2020 R.G. proposto da:

CONSORZIO PER LA TUTELA DEL FORMAGGIO PECORINO ROMANO DOP, elettivamente domiciliato in ROMA VICOLO ORBIRELLI, 31, presso lo studio dell’avvocato RIBALDONE MARIA ELENA ((Omissis)) rappresentato e difeso dall’avvocato GASTINI LUCA ((Omissis));

– ricorrente –

contro

FORMAGGI BOCCEA Srl , elettivamente domiciliato in ROMA VIA PRISCIANO 28, presso lo studio dell’avvocato CIPRIANI GUIDO ((Omissis)) che lo rappresenta e difende;

-controricorrente-

REGIONE LAZIO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA MARCANTONIO COLONNA, 27, presso lo studio dell’avvocato FUSCO FIAMMETTA ((Omissis)) che lo rappresenta e difende;

-controricorrente-

nonchè contro

FEDERAZIONE REGIONALE COLTIVATORI DIRETTI LAZIO, elettivamente domiciliato in ROMA CIRCONVALLAZIONE CLODIA, 29, presso lo studio dell’avvocato MARZOCCHI BURATTI BENEDETTO ((Omissis)) che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARZOCCHI BURATTI MARIANO ((Omissis));

-controricorrente-

nonchè contro

ASSO.Z.NE SENZA SCOPO LUCRO CONFEDERAZ.NE ITALIANA AGRICOLTORI ASSO.Z.NE REGIONALE SARDEGNA;

FEDERAZIONE REGIONALE COLTIVATORI DIRETTI DEL LAZIO, REGIONE AUTONOMA DELLA SARDEGNA;

-intimati-

con l’intervento adesivo della (Omissis), elettivamente domiciliato in ROMA VIA LIVIO PENTIMALLI, 43, presso lo studio dell’avvocato ROVAGNA GIOVANNI ((Omissis));

rappresentato e difeso dall’avvocato ENNA ALESSANDRO ((Omissis));

– interveniente adesiva alla ricorrente –

avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO ROMA n. 5216-2019 depositata il 01/08/2019.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16/02/2023 dal Consigliere ANDREA FIDANZIA.

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza n. 5216/2019, depositata in data 1.08.2019, in accoglimento dell’appello proposto dalla Formaggi Boccea Srl ed in riforma della sentenza n. 18413/2018 del Tribunale di Roma, sezione specializzata in materia di imprese, ha rigettato la domanda proposta dal Consorzio per la tutela del Formaggio Pecorino Romano DOP nei confronti dell’appellante, finalizzata ad accertare la nullità del marchio n. (Omissis) del 2008 nella titolarità della Formaggi Boccea Srl in quanto registrato in palese violazione dei diritti di privativa della Denominazione di Origine Protetta “Pecorino romano” e del marchio collettivo geografico “Pecorino romano” registrato dal Consorzio a seguito di domanda del (Omissis).

Il giudice d’appello ha ritenuto la non applicabilità della normativa comunitaria che disciplina la DOP sul rilievo che l’appellante aveva continuativamente utilizzato il marchio cacio romano sin dal 1991, epoca anteriore rispetto al riconoscimento della denominazione di origine protetta del 1996 da parte della Commissione Europea. Inoltre, se era pur vero che i marchi contenenti la denominazione cacio romano, registrati dalla Formaggi Boccea Srl rispettivamente in data (Omissis) e (Omissis), non erano stati rinnovati alla scadenza, tuttavia, nei brevi intervalli di tempo intercorrenti tra la scadenza di una privativa e la registrazione di quella successiva, l’uso del marchio cacio romano era stato comunque lecito a norma dell’art. 2751 c.c..

Infine, la Corte d’Appello ha ritenuto la liceità del marchio cacio romano rispetto al marchio collettivo Pecorino Romano di proprietà del Consorzio sul rilievo che l’uso era stato conforme ai principi di correttezza professionale. Non vi era stato, infatti, alcun rischio di confusione e di agganciamento parassitario in relazione alla radicale diversità dei prodotti contraddistinti di tali segni e dall’assenza di similitudine fonetica e logica delle due denominazioni.

Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Consorzio per la tutela del Formaggio Pecorino Romano DOP, affidandolo a quattro motivi.

La Formaggi Boccea Srl ha resistito in giudizio con controricorso.

Come nei precedenti gradi, sono intervenute anche in questo giudizio di legittimità la Regione Lazio, la Federazione Regionale Coldiretti Lazio, che hanno svolto difese in adesione a quelle svolte da Formaggio Boccea Srl , e la (Omissis), intervenuta adesivamente a favore del Consorzio ricorrente.

Il Consorzio ricorrente e la Formaggi Boccea Srl hanno depositato la memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c.. 

1. Con il primo motivo il Consorzio ricorrente ha dedotto l’omessa o falsa applicazione degli artt. 13 e 14 del regolamento comunitario 510/06/Ce.

Lamenta il ricorrente che la Corte d’Appello non ha applicato l’art. 14 del predetto regolamento, norma di conflitto che regola il rapporto tra una DOP ed un marchio successivo o anteriore, e che prevede, in caso di registrazione di marchi in violazione dell’art. 13 del regolamento in oggetto successivamente al riconoscimento della DOP, che gli stessi devono considerarsi invalidi (art. 14 comma 1), mentre, in caso di marchi anteriori, è prevista la sopravvivenza di tali segni alla duplice condizione della registrazione in buona fede e dell’assenza di cause di nullità ab origine o di decadenza (art. 14 comma 2).

In ordine a tale ultimo profilo, il Consorzio espone che, anche ammettendo che il marchio “cacio romano” fosse anteriore, la Corte d’Appello non aveva, erroneamente, riscontrato la mancanza di buona fede nella sua registrazione, e, comunque, la sua invalidità, per essere lo stesso puramente descrittivo della categoria del prodotto (formaggio) per il quale era stata chiesta la registrazione. In ogni caso, il ricorrente contesta che il marchio “cacio romano” potesse ritenersi anteriore rispetto alla DOP “Pecorino Romano”, atteso che la scelta della controricorrente di non rinnovare le precedenti registrazioni aveva determinato il venir meno dell’anteriorità, e deduce che il giudice di secondo grado aveva attribuito al marchio “cacio romano” l’anteriorità cronologica al solo scopo di non applicare la predetta norma comunitaria di conflitto.

Infine, la Corte d’Appello non aveva tenuto conto degli insegnamenti della giurisprudenza in tema di evocazione della denominazione protetta, anche in mancanza di un rischio di confusione: non vi era traccia nella motivazione di valutazioni riguardanti la “parziale incorporazione” della denominazione protetta nella contestata espressione del marchio individuale, non era stata individuata la nozione di “similarità fonetica e/o visiva”, non era stata applicata correttamente la nozione di evocazione concettuale.

In ordine a tale ultimo profilo, il Consorzio si duole che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente formulato dei distinguo all’interno della stessa classe di Nizza, andando a segmentare i formaggi in base alla consistenza ed all’aroma, non considerando che l’evocazione concettuale o indiretta si verifica ogni volta che nel marchio, nel nome commerciale o nell’etichetta vi siano degli elementi di qualunque tipo di aggancio parassitario alla DOP capaci di suscitare un accostamento mentale fra prodotti.

A tal fine, il Consorzio ricorrente ha chiesto che, ove questa Corte non accolga le proprie argomentazioni, sia disposto, quantomeno, un rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE per ottenere una interpretazione degli artt. 1314 del regolamento UE 510/06/CE in relazione, tra gli altri, al seguente quesito:

” 1) se ai sensi dell’art. 13 del regolamento possa ritenersi evocazione semantica, fonetica o concettuale di una DOP composta da due termini, di cui uno solo geografico, l’utilizzo dello stesso termine geografico in un marchio per un prodotto appartenente alla medesima classe di Nizza, in cui il sostantivo identifichi per il marchio genericamente un “formaggio” e per la DOP “un formaggio di pecora”, il tutto, peraltro, in presenza di una ricetta gastronomica nota che abbina il sostantivo e l’aggettivo in discussione”.

2. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 11 comma 40 c.p.i. e/o dell’art. 13 comma 10 c.p.i. nonchè la violazione dell’art. 12 comma 10 c.p.i. e 4 par. 4 lett d) ed e) dir. 89/104/CEE. Si duole il ricorrente che la Corte d’Appello, nell’esaminare la questione della liceità dell’uso del marchio cacio romano alla luce dell’art. 11 comma 40 c.p.i., non ha considerato che la liceità dell’uso del marchio è subordinata alla sua validità, che deve essere valutata alla luce dell’art. 13 comma 10 c.p.i..

Il marchio “cacio romano” è quindi nullo perchè i marchi di impresa non possono consistere in denominazioni generiche e mere indicazioni descrittive del prodotto e/o provenienza geografica dello stesso. La Corte d’appello ha quindi confuso il piano della validità del marchio con quella della correttezza dell’utilizzo del toponimo coincidente con un marchio collettivo.

In ordine al rapporto di conflitto tra questi due segni, il ricorrente lamenta che la Corte d’Appello ha condotta l’esame sulla somiglianza dei segni in modo analitico, scindendo il termine “Cacio” dal termine ” Romano” e limitando la propria valutazione al confronto tra “Cacio” e “Pecorino”, ed ha dichiarato la diversità radicale dei prodotti, frammentando arbitrariamente in diverse sottoclassi la categoria merceologica (classe 29 della classificazione di Nizza) cui si riferisce il marchio.

3. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c.: “nullità della sentenza per omessa motivazione o motivazione puramente apparente in relazione agli artt. 115, 132 n. 4 cp.c. e ai documenti 6,7, e 9 prodotti in giudizio dal Consorzio e mai contestati da alcuna parte in causa.

Espone il ricorrente che dalla semplice lettura dei documenti sopra indicati si evince che il Pecorino Romano DOP ed il cacio romano sono formaggi dalle caratteristiche simili, potendo anche il primo essere servito come formaggio da tavola (non solo essenzialmente da grattugia) ed avere media stagionatura, mentre il cacio romano può avere una stagionatura più prolungata che ne determina una pasta piuttosto compatta ed un sapore deciso ed intenso (analogamente al Pecorino).

Si duole che la Corte territoriale avrebbe negato un fatto provato o comunque pacifico in causa, e ciò in violazione dell’art. 115 c.p.c.. Sarebbe quindi evidente il vizio di motivazione in cui il giudice di merito sarebbe incorso, essendo i due prodotti, almeno in parte, identici.

4. Con il quarto motivo è stato dedotto l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riferimento alle caratteristiche dei prodotti cacio romano e Pecorino Romano.

Espone il ricorrente che le parti hanno ampiamente dibattuto in causa in ordine alla natura del prodotto e la Corte d’Appello non ha preso in considerazione il fatto, decisivo per il giudizio, dell’esistenza di una sovrapponibilità almeno parziale tra i prodotti in esame, emergente dall’esame dei documenti.

5. Tutti e quattro i motivi, da esaminarsi unitariamente in relazione alla stretta connessione delle questioni trattate, presentano profili di inammissibilità ed infondatezza.

Vanno, in primo luogo, esaminati per una questione di priorità logica, il terzo ed il quarto motivo, con i quali il Consorzio ricorrente ha inteso contestare fermamente l’affermazione della Corte d’Appello in ordine alla radicale diversità dei prodotti caseari rispettivamente contraddistinti dai segni Pecorino Romano e cacio romano.

In particolare, il Consorzio ricorrente contesta la valutazione con cui la Corte d’Appello ha ritenuto il Pecorino Romano come un formaggio aromatico e piccante, stagionato (a pasta dura o cotta), impiegato essenzialmente come formaggio di grattugia, prodotto con latte di pecora, mente il cacio romano come formaggio dolce, semistagionato, che richiama la caciotta a pasta molle di latte anche vaccino (riconducibile quindi alla mucca) che non si può grattugiare ed è quindi impiegato solo come formaggio da tavola.

E’ prioritario esaminare se, nel compiere tale valutazione, il giudice di secondo grado sia o meno incorso nelle denunciate (dal ricorrente) violazioni di legge (violazione dell’art. 115 c.p.c., vizio di motivazione, omesso esame di fatto decisivo), rilevando tale questione ai fini dell’esame dei primi motivi del ricorso.

Le censure svolte dal ricorrente con riferimento al terzo ed al quarto motivo sono inammissibili, atteso che il consorzio ricorrente, con l’apparente doglianza della violazione di legge, finisce, in realtà, per svolgere una mera censura di merito, in quanto finalizzata a sollecitare una diversa ricostruzione dei fatti ed una differente valutazione del materiale probatorio rispetto a quella operata dalla Corte di Appello di Roma.

In sostanza, il ricorrente non fa che censurare inammissibilmente una valutazione di fatto compiuta dalla Corte d’Appello.

In particolare, con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 115 c.p.c., il consorzio ricorrente sostiene che il fatto della identità quantomeno parziale del Pecorino Romano rispetto al cacio romano sarebbe pacifico in causa, in quanto non specificamente contestato dalla odierna controricorrente, ma tale deduzione è del tutto priva di autosufficienza.

Non vi è dubbio, infatti, che il ricorso per cassazione con cui si deduca l’operatività del principio di non contestazione non può prescindere dalla trascrizione degli atti sulla cui base si alleghi come integrata la non contestazione che il giudice di merito non ha inteso riconoscere, atteso che l’onere di specifica contestazione, ad opera della parte costituita, presuppone, a monte, un’allegazione altrettanto puntuale a carico della parte onerata della prova (vedi a contrariis Cass. n. 20637/2016; più recentemente vedi Cass. 10761/2022).

Nel caso di specie, il ricorrente si è limitato ad affermare genericamente che la controparte non avrebbe mai contestato le circostanze che ritiene ammesse a norma dell’art. 115 comma 2 c.p.c., senza fornire alcun dettaglio in ordine al contenuto delle allegazioni contenute negli atti processuali di primo grado del controricorrente, da cui scaturirebbe l’operatività della dedotta non contestazione.

Quanto al dedotto omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., va preliminarmente osservato che costituisce ormai ius receptum di questa Corte il principio secondo cui “L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. n. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4, c.p.c., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” (Cass. SSUU n. 8053/2014) Pertanto, la doglianza di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti deve riguardare un fatto inteso nella sua accezione storico-fenomenica, e non può consistere nella deduzione dell’omesso ed erroneo esame di determinati elementi probatori (vedi anche S.U. 22425/2018 in motivazione).

Nel caso di specie, il consorzio ricorrente lamenta l’omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., asseritamente costituito dall’esistenza di una quantomeno “sovrapponibilità almeno parziale” dei due formaggi contraddistinti dai segni in contesa (Pecorino Romano e cacio romano), non tenendo conto, tuttavia, che quello che qualifica come “fatto decisivo” non è affatto riconducibile alla nozione di “fatto storico”, essendo solo il frutto di una propria valutazione.

Il “fatto storico” rilevante nel caso in esame è, invece, rappresentato dalle caratteristiche, e dalla natura dei due formaggi in comparazione, ed è stato debitamente considerato dalla Corte d’Appello, che ne ha ritenuto la radicale diversità, non rilevando, quindi, che il giudice di secondo grado non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie emergenti in causa (documenti 6,7,9, allegati alla citazione di primo grado secondo la prospettiva del ricorrente). Va, in ogni caso, osservato, in ordine alla doglianza relativa all’omesso esame, in particolare, del doc. 9 (cfr. disciplinare di produzione del Pecorino Romano DOP pubblicato in GURI n. 271 del 20.11.2009), secondo cui il Pecorino Romano sarebbe stato registrato anche come formaggio da tavola, semistagionato (seppur comunque aromatico e lievemente piccante e non dolce, come il cacio romano), tale circostanza non è comunque decisiva, trattandosi di registrazione non dirimente e, soprattutto, del 2009, e come tale successiva alla pacifica registrazione del marchio cacio romano, avvenuta nel gennaio 2008 (vedi pagg 6 e 18 del ricorso per cassazione).

In conclusione, tutte le censure con cui il ricorrente vuole mettere in discussione la valutazione di fatto, compiuta dalla Corte d’Appello, di radicale diversità dei due formaggi, di differenti caratteristiche degli stessi, sono inammissibili.

Di tale valutazione fattuale non può non tenersi conto nell’esaminare, in primo luogo, il rapporto tra la denominazione di origine protetta e marchio in conflitto, che è disciplinato dall’art. 14 del regolamento n. 510/06/Ce, la cui violazione è stata dedotta con il primo motivo del ricorso.

Sul punto, le censure del Consorzio ricorrente sono infondate, anche se deve correggersi la motivazione a norma dell’art. 384 ult. comma c.p.c..

Va premesso che l’art. 14 paragrafo 1 legge cit. regola la domanda di registrazione di un marchio corrispondente ad una delle situazioni di cui all’art. 13 e “concernente lo stesso tipo di prodotto”.

La situazione di conflitto tra i due segni (DOP e marchio), contemplata dalla norma comunitaria, presuppone quindi che gli stessi abbiano ad oggetto lo stesso tipo di prodotto, presupposto in difetto del quale il titolare della DOP non può invocare la tutela apprestata dal reg. n. 510/06.

Si pone, a questo punto, la questione se sia corretta, anche dal punto di vista giuridico, la valutazione, fondata sulla valorizzazione delle diverse caratteristiche organolettiche dei prodotti, con cui la Corte d’Appello ha ritenuto “la radicale diversità” del cacio romano rispetto al Pecorino Romano.

In proposito, il Consorzio ricorrente, nel contestare (inammissibilmente) la valutazione in fatto svolta dalla Corte di Appello, lamenta che lo stesso giudice sarebbe incorso nell’errore giuridico di frammentare arbitrariamente in diverse sottoclassi la categoria merceologica del formaggio (classe 29 della classificazione di Nizza) che è, invece, comune ad entrambi i segni che sono in conflitto nella presente controversia.

In sostanza, ad avviso del ricorrente, posto che il Pecorino Romano ed il cacio romano sarebbero formaggi almeno parzialmente sovrapponibili, in ogni caso, la similitudine dei due prodotti avrebbe dovuto comunque essere valutata, sotto il profilo giuridico, esclusivamente sulla base dell’appartenenza dei medesimi ad una determinata categoria merceologica (in questo caso comune) secondo la classificazione di Nizza.

Il Collegio ritiene errata questa impostazione.

Per accertare se ci si trova in presenza dello stesso prodotto o di prodotti affini o similari, il riferimento alle classi merceologiche di cui alla tabella di Nizza è senz’altro pertinente allorquando i segni in conflitto siano entrambi dei marchi, non lo è, invece, affatto quando la comparazione debba effettuarsi tra una denominazione di origine protetta (DOP) ed un marchio.

In questo caso, non rileva la tabella di Nizza, dovendo la valutazione deve essere svolta dall’interprete sulla base delle prescrizioni della disciplina speciale, costituita dal regolamento Eurounitario vigente ratione temporis (nel caso in esame il n. 510/06), il quale fornisce in modo inequivocabile i criteri per verificare se la denominazione di origine ” registrata ai sensi del presente regolamento” ed il marchio il cui uso violerebbe l’art. 13, paragrafo 1, riguardino o meno “un prodotto dello stesso tipo”.

Le norme rilevanti da esaminare, a tal fine, sono il considerando 10 del reg. 510/06, secondo cui “Un prodotto agricolo o alimentare che beneficia di uno dei tipi di riferimento summenzionati dovrebbe soddisfare determinate condizioni elencate in un disciplinare”, nonchè gli artt. 4 e 5 del regolamento citato.

In particolare, l’art. 4 così recita:

“1. Per beneficiare di una denominazione d’origine protetta (DOP) o di un’indicazione geografica protetta (IGP), un prodotto agricolo o alimentare deve essere conforme ad un disciplinare.

2. Il disciplinare comprende almeno i seguenti elementi:

a) il nome del prodotto agricolo o alimentare che comprende la denominazione d’origine o l’indicazione geografica;

b) la descrizione del prodotto agricolo o alimentare mediante indicazione delle materie prime, se del caso, e delle principali caratteristiche fisiche, chimiche, microbiologiche o organolettiche del prodotto agricolo o alimentare;

c) la delimitazione della zona geografica e, se del caso, gli elementi che indicano il rispetto delle condizioni di cui all’art. 2, paragrafo 3;

d) gli elementi che comprovano che il prodotto agricolo o alimentare è originario della zona geografica delimitata di cui all’art. 2, paragrafo 1, lettera a) o b), a seconda dei casi;

e) la descrizione del metodo di ottenimento del prodotto agricolo o alimentare e, se del caso, i metodi locali, leali e costanti, nonchè gli elementi relativi al condizionamento, quando l’associazione richiedente, ai sensi dell’art. 5, paragrafo 1, stabilisce e motiva che il condizionamento deve aver luogo nella zona geografica delimitata per salvaguardare la qualità o garantire l’origine o assicurare il controllo…. Etc. “.

Come anticipato, essenziale è anche il contenuto dell’art. 5 comma 2 reg. 510/06 che così recita:

3. La domanda di registrazione comprende almeno:

a) il nome e l’indirizzo dell’associazione richiedente;

b) il disciplinare di cui all’art. 4;

c) un documento unico limitato agli elementi seguenti:

i) gli elementi principali del disciplinare: la denominazione, la descrizione del prodotto, incluse eventualmente le norme specifiche applicabili al suo condizionamento e alla sua etichettatura, e la descrizione concisa della delimitazione della zona geografica;

ii) la descrizione del legame del prodotto con l’ambiente geografico o con l’origine geografica di cui all’art. 2, paragrafo 1, lettera a) o b), a seconda dei casi, inclusi, eventualmente, gli elementi specifici della descrizione del prodotto o del metodo di ottenimento che giustifica il legame….”.

La lettura congiunta degli artt. 4 e 5 del reg. 510/06 consente quindi di affermare che per beneficiare di una denominazione d’origine protetta (DOP) o di un’indicazione geografica protetta (IGP), un prodotto agricolo o alimentare deve essere conforme ad un disciplinare, il quale deve necessariamente contenere la descrizione del prodotto agricolo o alimentare, mediante indicazione delle materie prime, se del caso, e delle principali caratteristiche fisiche, chimiche, microbiologiche o organolettiche del prodotto agricolo o alimentare nonchè del metodo di ottenimento del prodotto.

Questo disciplinare deve essere inserito nella domanda di registrazione della DOP nella quale devono essere comunque individuate gli elementi principali del disciplinare, tra le quali rientra sempre la descrizione del prodotto.

Per individuare l’ambito di tutela della DOP è quindi essenziale esaminare la descrizione del prodotto e il metodo di lavorazione dello stesso sia nel disciplinare che nella domanda di registrazione, i quali rappresentano, all’evidenza, un indice di natura oggettiva per effettuare l’indagine relativa all’affinità, similiarità dei prodotti.

Significativo, in particolare, è il riferimento nella descrizione del prodotto alle sue caratteristiche organolettiche, che non sono altro che le qualità del prodotto percepibili attraverso uno o più organi di senso: colore, forma, aroma, sapore, consistenza, etc. rientrano senz’altro tra i caratteri organolettici più importanti da verificare.

Non vi è dubbio, pertanto, che se vi è contestazione in causa in ordine alle caratteristiche (soprattutto organolettiche) di un prodotto ed occorra stabilire se i prodotti contraddistinti dai segni in conflitto siano, o meno, dello stesso tipo o comunque affini, il titolare della DOP è onerato di dimostrarle alla luce del “disciplinare” e, quindi, della “domanda di registrazione” della DOP. Nel caso di specie, il consorzio ricorrente deduce – in contrasto rispetto a quanto accertato dalla Corte di Appello – che non è vero, in termini assoluti, che il Pecorino Romano sia solo un formaggio aromatico e piccante, a pasta dura, impiegato essenzialmente come formaggio di grattugia, mentre il cacio romano sia un formaggio dolce, semistagionato, che non si può grattugiare ed è quindi impiegato solo come formaggio da tavola, essendoci quantomeno una “sovrapponibilità almeno parziale” dei due formaggi contraddistinti dai segni in contesa.

Ma se così fosse, la ricorrente, per fruire della tutela giuridica apprestata alla sua appartenenza ad una DOP registrata, avrebbe dovuto provare, essendo oggetto di contestazione, le caratteristiche organolettiche del Pecorino Romano che aveva documentalmente descritto nel “disciplinare” con una “registrazione” della DOP anteriore alla registrazione del marchio in conflitto, e, conseguentemente, dimostrare di aver chiesto la tutela con la DOP del “Pecorino Romano” anche nella diversa consistenza semistagionata (oltre che stagionata con pasta dura o cotta), e con il diverso sapore dolce (oltre che aromatico e piccante).

D’altra parte, se si esaminano in concreto i casi in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è occupata del conflitto tra una DOP ed un marchio, aventi ad oggetto prodotti caseari, emerge chiaramente che essa, prima di compiere ogni valutazione sulla confusione, usurpazione, evocazione dei segni in conflitto, aveva effettuato un accertamento preliminare sulle caratteristiche anche organolettiche dei prodotti, al fine di accertarne la similitudine.

In particolare, nella sentenza del 4.3.1999, C-87/97, caso c.d. Cambozola, emerge che la Corte di Giustizia ha preliminarmente evidenziato, al punto 27, che “…Trattandosi di un formaggio a pasta molle erborinato il cui aspetto esterno presenta analogie con quello del formaggio “Gorgonzola”, sembra legittimo ritenere che vi sia evocazione di una denominazione protetta qualora la parola utilizzata per designarlo termini con le due medesime sillabe della detta denominazione e ne comporti il medesimo numero di sillabe, risultandone una similarità fonetica ed ottica manifesta tra i due termini…”.

Anche nel conflitto tra la DOP italiana “Parmigiano Reggiano” ed il “Parmesan”, la Corte di Giustizia, nella sentenza n. 26.2.2008, C 132/05, nell’introdurre per prima la nozione di “somiglianza concettuale” (poi reiteratamente utilizzata sia dalla giurisprudenza Eurounitaria che italiana), ha precisato al punto 48:

“Tale somiglianza, come già le somiglianze fonetiche e ottiche rilevate al punto 46 della presente sentenza, è idonea ad indurre il consumatore a prendere come immagine di riferimento il formaggio recante la DOP “Parmigiano Reggiano” quando si trova dinanzi ad un formaggio a pasta duro, grattugiato o da grattugiare, recante la denominazione “parmesan””.

Anche nella sentenza del 2.5.2019, Queso Manchego, Euro 614/17, la Corte di Giustizia ha preliminarmente evidenziato, al punto 12, che la DOP “Queso Manchego” “protegge i formaggi lavorati nella regione La Mancia con latte di pecora e rispettando i requisiti tradizionali di produzione, lavorazione e stagionatura contenuti nel disciplinare di tale DOP… ” e li ha posti in relazione con un produttore residente nella stessa area geografica (appunto la Mancia in Spa gna), i cui prodotti, senza essere protetti da tale DOP, sono simili o comparabili a quelli protetti da quest’ultima.

Dunque, nei casi sopra esaminati, la Corte di Giustizia ha sempre posto in comparazione segni che contraddistinguevano formaggi aventi caratteristiche similari, in quanto aventi, a seconda, la stessa consistenza, la stessa stagionatura, lo stesso metodo di lavorazione, etc., e non un qualunque tipo di formaggio purchessia, solo perchè appartenente alla stessa classe merceologica.

Anche questa Corte, nella sentenza n. 27194/2019, ha condiviso lo stesso approccio ermeneutico.

In particolare, la predetta sentenza, dopo aver introdotto a pag. 16 il concetto di “somiglianza concettuale” che “… è idonea a indurre il consumatore ad avere in mente, come immagine di riferimento, il prodotto la cui indicazione geografica è protetta, quando si trovi in presenza di un prodotto simile recante la denominazione controversa”, ha affermato, a pag. 17, di condividere l’impostazione della Corte di Appello, che aveva ritenuto integrata l’evocazione della DOP Asiago, dato che sussistevano: a) la parziale incorporazione della denominazione protetta “Asiago” nella contestata espressione “altopiano di Asiago”; b) la “similarità fonetica e/o visiva;…c) la “somiglianza concettuale”, trattandosi del medesimo prodotto lattiero caseario, (sottolineatura dello scrivente) proveniente dalla medesima zona di produzione..”.

Tale approdo ermeneutico non è neppure scalfito dalle considerazioni svolte dal Consorzio ricorrente nella memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c..

In particolare, nel predetto atto difensivo, il Consorzio ha evidenziato a pag. 9 che “…le sentenze della Corte di Giustizia Ue citate – che riguardavano la mala fede – mostrano come la valutazione debba avere un raggio assai più ampio del semplice raffronto tra le caratteristiche di prodotti appartenenti alla medesima categoria, mentre il ragionamento della Corte d’Appello si fonda sul fatto – del tutto irrilevante – che un formaggio di latte misto a pasta semi-molle non possa essere confuso con un formaggio (prevalentemente, non esclusivamente) di latte di pecora a pasta dura….”.

Il Consorzio ricorrente ha, altresì, evidenziato, che la Corte di Giustizia UE, nel caso Champanillo del 9 settembre 2021 (causa C 783/19), ha inteso precisare che “…La Corte puntualmente afferma che la particolare funzione della disciplina sulle DOP-IGP esige una tutela “ad ampio raggio destinata ad estendersi a tutti gli usi che sfruttano notorietà associata ai prodotti protetti da una di tali indicazioni (cfr. il punto 50 delle motivazioni) “.

Questo Collegio ritiene che il richiamo effettuato dal Consorzio ricorrente alla predetta sentenza della Corte di Giustizia non sia conferente.

Va, in primo luogo, evidenziato che la Corte di Giustizia, nell’arresto in questione, non era chiamata all’interpretazione del regolamento n. 510/06, come nel caso di specie, ma all’interpretazione dell’art. 13 del reg. UE 1308/2013 – che, peraltro, disciplina solo i prodotti vinicoli.

Orbene, se è pur vero che la Corte di Giustizia, al punto 61, ha affermato che ” la nozione di evocazione ai sensi del reg. 1308/2013 non esige che il prodotto protetto dalla DOP ed il prodotto o il servizio contrassegnato dalla denominazione contestata siano identici o simili”, tuttavia, è quantomai doveroso porre in luce che la stessa sentenza, al punto 54, aveva anche precisato che l’art. 103 paragrafo 2 lett b) ” non contiene nessuna indicazione nè nel senso di una limitazione della protezione contro qualsiasi evocazione alle sole ipotesi in cui i prodotti contraddistinti dalla DOP e i prodotti o i servizi per il quali è utilizzato il segno controverso siano “comparabili” o “simili”, nè nel senso di un’estensione di tale protezione ai casi in cui il segno si riferisca a prodotti o servizi non simili a quelli che beneficiano della DOP”.

In sostanza, la sopra descritta interpretazione più estesa della Corte di Giustizia non è che il frutto del rilievo che il reg. 1308/2013, a differenza del reg. n. 510/06, oggetto di esame, non contiene la limitazione della tutela apprestata dalla DOP in situazioni riguardanti “il prodotto dello stesso tipo”.

E’ quindi evidente che le conclusioni della Corte di Giustizia – enfatizzate dalla parte ricorrente – siano state diverse.

Infine, non vi è dubbio che la mancanza del descritto presupposto fattuale per l’applicabilità del regolamento n. 510/06/Ce (alla luce della ricostruzione fattuale del giudice d’Appello) comporti l’assorbimento di tutte le censure svolte dal consorzio, nel primo motivo di ricorso, con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 14 par. 1 e 2 dello stesso regolamento, ivi comprese le questioni riguardanti le condizioni di sopravvivenza del marchio in conflitto con la DOP, alla stregua dell’art. 14 reg. 510/06/UE (argomento affrontato dal consorzio ricorrente anche nella memoria ex art. 380 bis.1 cod. proc. civ).

Inammissibile, per intervenuta preclusione, è, inoltre, la dedotta violazione dell’art. 13 comma 1 c.p.i., invocata dal ricorrente per non avere la Corte, nell’esaminare il conflitto tra il marchio collettivo Pecorino Romano ed il marchio individuale cacio romano, considerato la natura meramente descrittiva di tale marchio.

Sul punto, non è contestato dalla società controricorrente che nell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado il Consorzio ricorrente avesse richiesto la declaratoria di nullità del marchio cacio romano anche per carenza dei requisiti di cui all’art. 7 e 13, comma 1 del codice della proprietà industriale.

Tuttavia, da un attento esame della sentenza impugnata, che ha ricostruito il percorso argomentativo della sentenza del giudice di primo grado, emerge in modo evidente che, in quest’ultima decisione, la nullità del marchio cacio romano è stata accertata e dichiarata limitatamente all’unico profilo del conflitto di tale marchio con il marchio collettivo anteriore Pecorino Romano (con conseguente riconoscimento nel caso concreto del divieto di registrazione di un segno costituente violazione dell’altrui diritto di proprietà industriale, a norma dell’art. 14 comma 1 lett c) c.p.i). La questione di tale segno, come avente natura descrittiva del prodotto e/o della provenienza geografica dello stesso, non è stata minimamente esaminata dal giudice di primo grado (evidentemente in quanto ritenuta assorbita).

Nè risulta, non avendolo neppure il consorzio ricorrente allegato nel ricorso, che nel giudizio di appello lo stesso avesse riproposto, ex art. 346 c.p.c., la domanda di nullità del marchio per violazione dell’art. 13 comma 10 c.p.i..

Ne consegue che tale domanda deve intendersi rinunciata e non può, pertanto, formare oggetto del ricorso per cassazione, essendosi, sul punto, formata una preclusione.

Peraltro, lo stesso ricorrente, nell’indicare l’oggetto del ricorso per cassazione pag. 7, ha espressamente fatto riferimento (solo) alla nullità, invalidità e/o inefficacia del marchio (Omissis) in relazione a due distinte cause petendi, la prima, avente ad oggetto la tutela della DOP e, la seconda, avente ad oggetto la tutela del marchio collettivo registrato dal consorzio.

Infine, anche la dedotta violazione dell’art. 12 comma 10 c.p.i. e 4 par. 4 lett d) ed e) dir. 89/104/CEE deve ritenersi insussistente.

La Corte d’Appello, nel verificare la conformità dell’uso del marchio cacio romano ai principi della correttezza professionale, ai sensi dell’art. 11 comma 40 c.p.i., ha accertato l’assenza di alcun rischio confusorio e di agganciamento parassitario tra il marchio collettivo Pecorino romano ed il marchio individuale cacio romano. Inoltre, è stata messa in luce l’assenza di similitudine fonetica (idonea ad escludere, soprattutto per un consumatore non italiano, ogni intento ed effetto decettivo) e logica tra la parola Pecorino e Cacio.

Nè può accogliersi la doglianza di parte ricorrente, secondo cui la Corte d’Appello avrebbe provveduto ad un esame analitico e particolareggiato dei due segni, e non sintetico, sul rilievo che avrebbe messo in comparazione solo le parole “Pecorino” e “Cacio”, non considerando nella valutazione il termine “romano”.

Sul punto, non vi è dubbio che la Corte d’Appello, nell’apprezzamento di fatto che compete al giudice di merito, abbia ritenuto le parole “Pecorino” e “Cacio” il cuore dei rispettivi marchi, ritenendo, invece, verosimilmente il termine “Romano” come una mera indicazione di provenienza e, come tale, non avente carattere distintivo.

Infine, la Corte d’Appello ha correttamente esaminato la questione della liceità dell’uso del marchio “cacio romano” alla luce dell’art. 11 comma 4 c.p.i., avuto riguardo alla seconda causa petendi azionata dal Consorzio (per come dallo stesso evidenziato a pag. 7 del ricorso), avente ad oggetto la tutela del marchio collettivo registrato dal Consorzio.

Orbene, la questione dell’eventuale contraffazione e interferenza del marchio cacio romano rispetto al marchio collettivo Pecorino Romano prescinde dalla validità o meno del segno ritenuto in conflitto. Tale problematica avrebbe potuto rilevare ove a chiedere la tutela fosse stato, al contrario, il marchio asseritamente invalido e il presunto contraffattore si fosse difeso assumendo la mancanza di proteggibilità del marchio azionato. In una tale eventualità, il giudizio di contraffazione si sarebbe esteso anche alla validità, quantomeno incidenter tantum, del marchio che aveva chiesto la tutela.

Non vi è dubbio che il Consorzio ricorrente, nell’affermare che la Corte d’Appello, oltre ad aver accertato la liceità del segno posteriore, avrebbe dovuto, altresì, esaminarne la validità, non abbia fatto altro che riproporre in modo surrettizio la domanda di nullità del marchio cacio romano, rispetto alla quale era già maturata la preclusione nel giudizio di appello.Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge, a favore di ciascun controricorrente.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 16 febbraio 2023.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2023